GANGHERETO

Madonna del Sorriso

un pò di storia…

…recente

La storia di Ganghereto comincia da lontano, alla fine degli anni ’60, quando Padre Ennio Domenico Staid con Padre Umberto Frassinetti e almeno agli inizi, Padre Raffaele Quilotti, giravano per l’Italia fondando e seguendo i primi gruppi giovanili misti (intendo maschi e femmine, cosa che allora dava adito a parecchie chiacchiere e parecchie perplessità da parte dei genitori).

I gruppi più forti nacquero a Bologna, a Ferrara, a Rovigo, a Vigevano; ce n’erano anche a Roma, a Preganziol, ad Arezzo, a Catania, ma non così stabili come gli altri. Tutti questi gruppi erano chiamati G.A., cioè Giovani Amici (del Rosario) erano basati sulla preghiera, specialmente quella del Rosario e su incontri di riflessione. Erano tutti autogestiti, perché gli animatori non esistevano ancora, bisognava ancora inventarli, e le due o tre visite all’anno di Padre Staid erano ossigeno e vita per noi. Avevamo degli appuntamenti fissi: ad ottobre il Festival della Rosa d’Oro a Bologna, dove ciascun gruppo presentava le sue canzoni; un campo invernale di una settimana a Pracchia (PT) durante le vacanze di Natale; la marcia della Speranza il Lunedì di Pasqua; un’altra settimana di campo estivo.Di occasioni per conoscerci e stare assieme ne avevamo parecchie dunque: siamo tuttora legatissimi tra chi faceva parte dei gruppi GA di Rovigo, Ferrara, Bologna. Ci siamo ritrovati due anni fa in occasione del settantesimo compleanno di Ennio e sembrava fossero passati venti giorni e non venti anni dall’ultima volta che ci eravamo trovati tutti assieme.Bene, ad un certo punto è nato un sogno, un’utopia, se vuoi: trovare una casa di accoglienza, di preghiera, ma soprattutto creare una comunità di laici e consacrati, che vivessero assieme. Ennio individuò in Toscana un vecchio convento francescano, abbandonato: Ganghereto, appunto. Era in condizioni disastrose. Il Vescovo di Arezzo lo diede volentieri, ma c’era un problema che tutti dicevano insormontabile: l’acqua. Non ce n’era.Tu non ci crederai, ma Ennio si fece insegnare da un rabdomante e, armato di bastoncino e di preghiera, trovò l’acqua. Era fatta. Ora mancavano solo i soldi, ma, sembra incredibile a raccontarlo, arrivarono sempre a tempo per pagare i muratori, le fatture, i materiali…Noi avevamo 17, 18 anni e abbiamo trascorso tutta la nostra estate, quella del ’72, con Padre Ennio e Padre Umberto, a Ganghereto a lavorare alla casa, a ripulire prima di tutto il pozzo, a dar vita a quelli che oggi sono “Il Giardino dei Semplici” e “L’Orto dei Miracoli” (erano adibiti a pollai, con la terra bruciata dagli escrementi dei polli e tutti ci dicevano che lì piante non ne sarebbero mai cresciute). Una stanza alla volta venne liberata da macerie, sporcizia, insetti e topi, in quest’ordine; ciascuno di noi ragazzi stava già pensando quale fosse la giusta facoltà universitaria o il lavoro più adatto per creare questa nostra comunità, questa utopia.

Puoi immaginare l’entusiasmo che ci sosteneva? Era una cosa esaltante pensare che avremmo vissuto tutti insieme, che avremmo formato lì le nostre famiglie, che l’amicizia che ci legava non sarebbe mai venuta meno. Era magnifico.Il Signore ci ha sempre sostenuti con la sua Provvidenza, l’abbiamo proprio vista all’opera, con il cibo che ci veniva regalato proprio quando non ce n’era più, con i soldi che arrivavano proprio quando servivano… ma evidentemente la comunità non era nei piani di Dio. L’estate del ’73 sono state assegnate alla nascente (e ancora un po’ fatiscente) Casa di Preghiera alcune suore: Madre Marie, Suor Anaig, suor Nicole, Suor Maria Luisa, in seguito Suor Agnese e Suor Stella. Quell’anno è anche arrivata la statua della Madonna del Sorriso a cui è stata dedicata la Casa. Anche questo l’ha voluto Ennio, che continuava a ripeterci che un cristiano triste è un cattivo cristiano. Madre Marie ha fortemente voluto la Casa di Preghiera, ha duramente lavorato per questo e l’ha tenuta in vita anche quando, per gelosie, per incomprensione dei superiori, penso soprattutto per la paura di questi che nascessero chiacchiere per la convivenza tra frati e suore, padre Ennio e Padre Umberto sono stati costretti ad andarsene, come puoi ben immaginare, con la morte nel cuore. Quello che oggi è Ganghereto si deve a Madre Marie.Questa la storia.

Quando però, una trentina di anni dopo, gli uomini del borgo di Ganghereto, che si erano trasferiti nella “terra nuova” edificata per decreto della Repubblica divenendo “fedelissimi” di Firenze, concordarono sulla necessità di distruggere il simbolo dei loro precedenti dominatori, anche la sorte del palazzo fu segnata. Fu risparmiata solo la chiesetta di San Niccolò, ma anch’essa, abbandonata al suo destino, andò col tempo in rovina e molti dei suoi materiali servirono nel Settecento per la costruzione della nuova parrocchiale di Levanella.

Io ho cominciato a portare gruppi di ragazzini nell’83. Da quel momento Ganghereto è sempre stato il nostro punto di riferimento. Io credo che chiunque ci sia stato una volta poi sia tornato, con me o da solo. Cosa c’è in Ganghereto? Io penso che ciò che attrae subito è l’accoglienza, la sensazione di essere a casa, di essere tra amici. All’ingresso c’è una preghiera, scritta da Ennio, che invita la Casa di Ganghereto ad accogliere chiunque passi di lì, ed è questo che le suore fanno, con la loro semplicità e affabilità.

C’è poi la pace che aiuta, quasi invita, alla meditazione e alla preghiera. Se uno vuole, veramente può incontrare Gesù e sentirlo persona, fratello, Signore. Si scopre o si riscopre la dimensione del silenzio e della preghiera, quella fatta con calma, senza fretta, senza parole; si scopre lì che non c’è bisogno di parlare tanto o di parlar forbito per comunicare con Dio. Le suore poi sono magnifiche: tutte molto semplici, umili (poi magari scopri che ciascuna di loro ha almeno una laurea) e sempre disposte all’ascolto, sempre disposte all’aiuto. Ricordo il funerale di Suor Agnese, a cui ha partecipato una vera folla. Nel silenzio, nel nascondimento, ad imitazione di Maria, aveva aiutato materialmente o spiritualmente tutta quella gente. E quello che ha fatto lei lo stanno facendo anche le altre suore: forse, dopo tutto, è questa la santità: accogliere, ascoltare, agire. È notevole che anche persone che, crescendo, hanno abbandonato la pratica religiosa, comunque ricordino Ganghereto con nostalgia e con sincero rimpianto. Ganghereto è una parte di me ma credo di non sbagliare dicendo che è anche una parte di ciascuno di voi.

Angela R.

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passata…

Origini miracolose sono attribuite anche a una piccola fonte nei pressi del borro del Roviggiani, poco distante, sotto l’antico convento francescano di Ganghereto; qui si sarebbe fermato a riposare, stanco e assetato per un lungo viaggio, nientedimeno che lo stesso San Francesco e avrebbe fatto sgorgare acqua purissima dalla terra, toccandola col suo bastone da viaggio. Nel 1607, frate Agnolo da Faltona, conventuale del luogo, chiese invano al comune di Terranuova un contributo di 10 scudi per restaurare la “fontana fatta dalle proprie mani di San Francesco” perché era “in pericolo di rovinare et perdersi una tal reliquia”. E di “reliquie” Ganghereto, la sua chiesa e il suo convento avrebbero continuato a perderne: tra le ultime che se ne sono andate c’è una tavola con un San Francesco attribuita alla bottega di Margarito d’Arezzo detto il Margaritone, che è stata prelevata per il restauro e si conserva ormai da qualche anno per motivi di sicurezza nel Museo d’Arte medievale e moderna di Arezzo.

Nessuno può comunque asportare uno dei beni più interessanti di Ganghereto: il panorama che si gode dalla collina; quel panorama – sempre piacevole a vedersi anche se mutato col tempo – cui faceva riferimento Poggio Bracciolini definendolo “amenissimo”, aperto com’era sulle colline “dove si produce un vino degno del nettare di Giove”, quando, con la sua usuale vena polemica, accusava i frati conterranei di preferire una vita comoda alle privazioni necessarie a fortificare lo spirito.Se dal piazzale antistante la chiesa, guardando verso sud-ovest, si osserva attentamente l’altura del Cassero, al di là del baratro di calanchi d’argilla in mezzo ai quali sale la strada provinciale, si possono intravedere ancora i ruderi non molto appariscenti di un’antica costruzione. Si tratta dei miseri resti di quello che un tempo fu il grandioso palazzo dei conti Guidi di Battifolle signori feudali di tante terre in Casentino e in Valdarno.Oggi, a quelle rovine ben pochi fanno caso; eppure il castello di Ganghereto, fra Dugento e Trecento, quando ospitava oltre alla dimora dei conti anche un centinaio di famiglie, sostenne una parte non indifferente in quel conflitto tra Guelfi e Ghibellini che vide schierate l’una di fronte all’altra le città di Firenze e Arezzo coi loro rispettivi alleati nel contado, e passò, talvolta in modo cruento, in mano ora dell’una ora dell’altra fazione. Del resto la stessa grande famiglia dei conti Guidi, originariamente ghibellina, era profondamente divisa al suo interno e non di rado qualcuno dei suoi membri cambiò bandiera.

Si legge in un antico registro che il 20 agosto 1260, Guglielmo di Grazia, capo della comunità di San Niccolò a Ganghereto, si obbligò di fronte alle autorità guelfe fiorentine a far giungere al castello di Montalcino (avamposto di Firenze contro Siena) quindici staia di grano “buono, puro e senza malizia”: segno evidente che in quel momento a Ganghereto si pendeva per il partito della Chiesa.Ma nel dicembre 1267 il ghibellino Ranieri Pazzi che Dante Alighieri pone all’inferno tra i violenti perché aveva fatto “alle strade tanta guerra”, in combutta con Squarcialupo di Soffena e la sua masnada, assalì nei pressi del castello un’ambasceria di prelati spagnoli diretta a Viterbo da papa Urbano IV, depredando e massacrando i malcapitati diplomatici, tra cui anche il vescovo di Salamanca Garcìa de Silves. Orbene, i complici di questo efferato delitto si rifugiarono tranquillamente in Ganghereto e vi ottennero facilmente asilo dagli abitanti, che innegabilmente si erano ora accostati alla parte imperiale.Gli uomini di Ganghereto pagarono molto cara la loro “generosità”, perché di lì a pochi giorni il papa, informato dell’accaduto, scagliò subito contro di loro un violento anatema, comminando la scomunica fino alla quarta generazione, ordinando che chiunque ne aveva la possibilità distruggesse senza pietà le case in cui gli assassini si erano messi al sicuro e vietando a qualsiasi sacerdote di officiare messa e di abitare da quelle parti fino a che la Santa Sede non si fosse degnata di concedere il perdono. La città di Firenze, che allora era in mano alla Parte Guelfa e stava attenta a cogliere al volo qualsiasi opportunità le venisse offerta di poter molestare i suoi nemici, inserì perfino nei suoi statuti il bando perpetuo contro il Pazzi e i suoi “complici”, e qualche anno dopo, profittando di un momento propizio assalì il castello con le sue armate e lo conquistò senza tanti sforzi. Il 4 giugno 1271, nel vicino borgo murato dei Mori, Cenni di Viva da Pernina, procuratore dagli uomini di Ganghereto, era costretto a giurare solennemente in loro nome che, a partire dal settembre venturo, e in tempo massimo di due mesi, essi avrebbero distrutto la propria residenza, si sarebbero trasferiti più in basso, in pianura, e non avrebbero mai più tentato di ricostruirsi la casa dove stavano prima.

Fu fondato allora un piccolo villaggio, detto il “Borgo”, presso il “mulino della Contessa”, sul bivio che si dirama da una parte in direzione di Loro Ciuffenna e dall’altra verso San Giustino; quel mulino sarebbe divenuto più tardi proprietà del comune di Terranuova, che ogni tre anni lo avrebbe dato in appalto a un mugnaio nel corso di un’asta pubblica con tanto di “moccolo acceso”, e infine venduto a dei privati che lo avrebbero trasformato in una cartiera, quella cartiera che è rimasta attiva fino a non molto tempo fa. Venne risparmiato dalla distruzione solo il cassero, ossia il palazzo dei conti, perché i signori di allora, Simone e Guido Novello, non avevano partecipato all’aggressione; poi i Guidi fecero professione di fede guelfa e quindi il fortilizio acquisì per Firenze una grande rilevanza strategica come baluardo antighibellino, dimostrandolo chiaramente nel 1313 in occasione dell’arrivo in Valdarno delle truppe dell’imperatore Arrigo VII.